La mia fuga dalla schiavitù

di Frederick Douglass

Frederick Douglass
Frederick Douglass

Abolizionista, oratore, scrittore, editore, politico, esponente di spicco della lotta per i diritti civili e per l’uguaglianza, Frederick Douglass è una delle personalità più eminenti e rappresentative del XIX secolo, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa.

Nato schiavo in Maryland nel 1818, Douglass si guadagna la libertà proprio nel modo descritto in questo articolo, pubblicato - per i motivi che spiega lui stesso - nel 1881, ben quarantatré anni dopo gli avvenimenti narrati, quando ormai la sua fama è riconosciuta ovunque.

Douglass scrive la sua prima autobiografia nel 1845, quando la schiavitù, che verrà abolita con la Guerra Civile, è ancora in vigore. Per il timore di essere ricondotto in schiavitù, anche su consiglio di amici e altri abolizionisti si rifugia per due anni in Irlanda e Inghilterra, dove tiene discorsi e conferenze. Amici e sostenitori europei gli conferiscono una somma sufficiente perché al ritorno negli Stati Uniti, nel 1847, possa “comprare” la propria libertà.

Douglass è un forte sostenitore degli ideali della Costituzione, e proprio nel documento fondante della nazione vede i presupposti perché si possano e debbano mettere in atto i principi di uguaglianza. Si batte non solo per i diritti della gente di colore ma anche per quelli delle donne, e in particolare per il diritto di voto.

Gli anni della Guerra Civile lo vedono talvolta criticare e talvolta ammirare le azioni e le parole di Lincoln. Si batte perché anche gli uomini di colore possano partecipare alla guerra. I suoi figli si arruolano.

La vita di Frederick Douglass, che muore il 20 febbraio 1895, è una vita piena e vissuta con determinazione, amore per la conoscenza e coraggio. L’articolo qui proposto, che narra della sua rocambolesca fuga verso la libertà, è un tributo e uno spunto per un approfondimento della biografia e del pensiero di una grande personalità, il cui influsso è ancora oggi autorevolmente presente.

 

L’articolo qui proposto (Titolo originale: “My Escape from Slavery”) è apparso in The Century Illustrated Magazine 23, Nov. 1881 (pp. 125-131).


Frederick Douglass

La mia fuga dalla schiavitù

Traduzione di Amelia Chierici

 

Nel primo racconto della mia vita in schiavitù, scritto quasi quarant’anni fa, e in vari scritti da allora in poi, diedi ai lettori quelli che consideravo ottimi motivi per non rivelare le modalità della mia fuga. In sostanza questi motivi erano: in primo luogo, il fatto che tale pubblica rivelazione avrebbe potuto essere in qualsiasi momento usata, con la schiavitù ancora in vigore, dal padrone contro lo schiavo, e impedire in futuro la fuga a chi avesse voluto utilizzare i miei stessi mezzi; il secondo motivo vincolava, se possibile, ancora di più al silenzio: la pubblicazione dei dettagli avrebbe certamente messo in pericolo le persone e le proprietà di coloro che fornirono aiuto. Lo stesso omicidio non era punito con maggior certezza e severità nello Stato del Maryland di quanto non lo fosse fornire aiuto e complicità nella fuga di uno schiavo. Molti uomini di colore, per nessun altro crimine se non aver dato aiuto a uno schiavo in fuga, sono, come Charles T. Torrey, morti in prigione. L’abolizione della schiavitù nel mio Stato natale e in tutto il paese, e il passare degli anni, rendono la prudenza fin qui osservata non più necessaria. Ma persino dopo l’abolizione della schiavitù ho talvolta pensato bene di eludere la curiosità dicendo che mentre la schiavitù era in vigore c’erano buoni motivi per non raccontare le modalità della mia fuga, e che da quando la schiavitù aveva cessato di esistere non c’era motivo di darne conto. Cesserò ora, tuttavia, di avvalermi di tale formula, e, per quanto mi sarà possibile, proverò a soddisfare questa naturale curiosità. Avrei dovuto, forse, cedere prima a tale disposizione d’animo, se ci fosse stato qualcosa di molto eroico o elettrizzante negli eventi connessi con la mia fuga, perché mi spiace dire che non ho niente del genere da raccontare; eppure, il coraggio di rischiare il tradimento e l’audacia che era pronta a incontrare la morte, se necessario, nel perseguire la libertà, erano elementi essenziali dell’impresa. Il mio successo fu dovuto alla prontezza piuttosto che al coraggio, alla fortuna piuttosto che all’audacia. I mezzi per la fuga mi furono forniti proprio dagli uomini che stavano facendo le leggi per tenermi ancora più saldamente in schiavitù.

Era usanza nello Stato del Maryland richiedere che le persone di colore libere avessero quelli che venivano chiamati documenti di libertà. Si chiedeva loro di rinnovare questi strumenti molto di frequente, e, attraverso una tassa sulla loro redazione, considerevoli somme venivano di volta in volta incassate dallo Stato. Su questi documenti erano riportati il nome, l’età, il colore, l’altezza e tutti i connotati dell’uomo libero, insieme a eventuali cicatrici o altri segni di riconoscimento che potessero agevolare la sua identificazione. Questo sistema in qualche modo si sconfiggeva da sé… dal momento che era possibile trovare più di una persona che corrispondesse alla medesima descrizione generale. Ne consegue che molti schiavi riuscivano a fuggire impersonando il possessore di un certo incartamento; e ciò spesso avveniva in questo modo: uno schiavo, che corrispondesse quasi del tutto o a sufficienza alla descrizione contenuta nei documenti, li prendeva in prestito o a noleggio fino a quando grazie a essi non avesse raggiunto uno Stato libero dalla schiavitù, e poi, via posta o in altro modo, li restituiva al proprietario. L’operazione era rischiosa tanto per chi prestava i documenti quanto per chi li prendeva in prestito. La mancata restituzione dei documenti da parte del fuggitivo avrebbe messo nei guai il benefattore, e il rinvenimento dei documenti nelle mani dell’uomo sbagliato avrebbe messo nei guai sia il fuggitivo che il suo amico. Si trattava, pertanto, di un gesto di estrema fiducia da parte dell’uomo di colore libero, che in tal modo rischiava la propria libertà perché un altro potesse ottenerla. Ciò era, tuttavia, non di rado coraggiosamente praticato, e veniva raramente scoperto. Io non ero così fortunato da assomigliare a qualcuno dei miei conoscenti liberi abbastanza da rispondere alla descrizione contenuta nei loro documenti. Ma avevo un amico – un marinaio – che possedeva un lasciapassare da marinai. Questa carta assolveva alla stessa funzione dei documenti di libertà... descrivendo la sua persona e attestando il fatto che era un marinaio americano libero. Aveva nell’intestazione l’aquila degli Stati Uniti, che dava subito al documento l’aspetto di un’autorizzazione. Questo lasciapassare, una volta in mano mia, non descriveva il suo portatore in modo molto accurato. A dire il vero, faceva riferimento a un uomo molto più scuro di me, e un suo esame attento avrebbe causato da subito il mio arresto.

Al fine di evitare questa fatidica analisi da parte del personale della ferrovia, mi misi d’accordo con Isaac Rolls, un vetturino di Baltimore, perché portasse il mio bagaglio al treno per Philadelphia proprio al momento della partenza, e saltai io stesso sul treno quando questo era già in movimento. Se fossi andato alla stazione a comprare il biglietto, sarei stato prontamente e accuratamente esaminato, e senza dubbio arrestato. Nello scegliere questo piano considerai lo sgomitare, e la naturale fretta del capotreno, su un treno affollato di passeggeri, e feci affidamento sulla mia abilità e prontezza nel fingermi marinaio, come descritto nel lasciapassare, per tutto il resto. Un elemento in mio favore era la benevola disposizione diffusa a quel tempo a Baltimore e in altri porti di mare nei confronti di “quelli che solcano il mare su navi”1. “Libero commercio e diritti dei marinai”2 esprimeva allora il sentire della nazione. Per quanto riguarda il vestiario, ero abbigliato alla marinara. Avevo una camicia rossa e un cappello cerato, e un fazzoletto nero annodato alla marinara largo e in modo noncurante intorno al collo. La mia conoscenza delle navi e del gergo marinaresco mi furono di grande aiuto, dal momento che conoscevo una nave da prua a poppa e dal paramezzale della chiglia alle crocette, e sapevo parlare come un vecchio lupo di mare. Ero a buon punto in direzione di Havre de Grace quando il capotreno arrivò nella carrozza dei neri a ritirare i biglietti e a esaminare i documenti dei passeggeri. Questo fu un momento cruciale del dramma. Tutto il mio futuro dipendeva dalla decisione di questo capotreno. Per quanto fossi agitato durante lo svolgimento di questa procedura, almeno esteriormente rimasi calmo e controllato. Lui procedette con il proprio compito… esaminando diversi altri uomini di colore prima di me. Ebbe un tono piuttosto severo e si mostrò perentorio, prima di arrivare da me, quando, stranamente, e con mia sorpresa e sollievo, i suoi modi cambiarono del tutto. Nel vedere che non avevo ancora prontamente esibito i miei documenti di libertà, come avevano fatto le altre persone di colore della carrozza, mi disse, in modo cordiale, in contrasto con il suo comportamento verso gli altri:
“Suppongo che tu abbia i documenti”.
Al che risposi:
“No, signore, non li porto mai in mare con me”.
“Ma hai qualcosa che dimostra che sei un uomo libero, giusto?”.
“Sì, signore,” risposi “ho un documento con l’aquila degli Stati Uniti, che mi porterà in giro per il mondo”.

Al che tirai fuori dalla profonda tasca da marinaio il mio lasciapassare, precedentemente descritto. Una semplice occhiata al documento gli bastò, e poi prese i soldi del biglietto e se ne andò per i fatti suoi. Questo lasso di tempo fu uno dei più angoscianti che abbia mai provato. Se il capotreno avesse guardato con attenzione il documento, non gli sarebbe sfuggito che questo si riferiva a una persona dall’aspetto molto diverso dal mio, e in quel caso sarebbe stato suo dovere arrestarmi all’istante, e rispedirmi a Baltimore dalla prima stazione. Quando se ne andò assicurandomi che ero a posto, sebbene molto sollevato mi resi conto di essere ancora in grande pericolo: ero ancora in Maryland, e passibile di arresto in qualsiasi momento. Vidi sul treno diverse persone che mi avrebbero riconosciuto se diversamente abbigliato, e temetti che potessero riconoscermi persino nella mia “tenuta” da marinaio e segnalarmi al capotreno, il quale mi avrebbe dunque sottoposto a un esame più accurato, che sapevo bene mi sarebbe stato fatale.

Nonostante non fossi un assassino in fuga dalla giustizia, mi sentivo forse avvilito come un criminale di quel genere. Il treno andava a una velocità molto elevata per le ferrovie di quell’epoca, ma per la mia mente angosciata era fin troppo lento. I minuti erano ore, e le ore erano giorni, durante questa parte della mia fuga. Dopo il Maryland, dovevo attraversare il Delaware… un altro Stato in cui c’era la schiavitù, dove i cacciatori di schiavi generalmente aspettavano la loro preda, perché non era all’interno dello Stato ma presso i suoi confini che questi segugi umani erano più vigili e attivi. Le linee di confine tra la schiavitù e la libertà erano il vero pericolo per i fuggitivi. Il cuore di una volpe o di un cervo, con cani affamati all’inseguimento, non avrebbe potuto battere in modo più angosciato o rumoroso di quanto non abbia fatto il mio dal momento in cui lasciai Baltimore fino a quando non raggiunsi Philadelphia. L’attraversamento del fiume Susquehanna a Havre de Grace era a quei tempi effettuato in traghetto, a bordo del quale incontrai un giovane uomo di colore di nome Nichols, che andò molto vicino a tradirmi. Era sul traghetto come manovale, ma, anziché farsi gli affari suoi, insistette nel dire che mi conosceva, e mi fece domande rischiose del tipo dove stavo andando, quando sarei tornato, ecc. Mi allontanai da questo scomodo conoscente non appena riuscii a farlo con discrezione, e me ne andai da un’altra parte del traghetto. Una volta attraversato il fiume, incontrai un nuovo pericolo. Solo alcuni giorni prima avevo lavorato su un revenue cutter3 presso il cantiere di Mr. Price a Baltimore, sotto la direzione del capitano McGowan. A questo punto di incontro dei due treni, quello che andava verso sud si fermò al binario di fronte a quello diretto verso nord, e si dà il caso che tale capitano McGowan fosse seduto accanto a un finestrino dal quale poteva chiaramente vedermi. E mi avrebbe sicuramente riconosciuto se avesse guardato verso di me per un solo secondo. Fortunatamente, nella fretta del momento, non mi vide; e i treni ben presto si superarono l’un l’altro andando nelle loro rispettive direzioni. Ma non fu solo qui che la scampai per un pelo. Sul mio stesso treno si trovava un fabbro tedesco che conoscevo bene, il quale mi osservò attentamente, come intento a pensare se mi aveva già visto da qualche parte durante i suoi viaggi. Credo davvero che mi riconobbe, ma che non se la sentì di tradirmi. In ogni caso, mi vide fuggire e non proferì parola.

L’ultimo punto di imminente pericolo, e quello che temetti di più, fu Wilmington. Qui scendemmo dal treno e prendemmo il piroscafo per Philadelphia. Nel fare questo cambio di nuovo temetti che mi arrestassero, ma nessuno mi importunò, e ben presto mi trovai sull’ampio e splendido fiume Delaware, di corsa verso la Città dei Quaccheri. Appena arrivato a Philadelphia, nel pomeriggio, chiesi a un uomo di colore come fare per andare a New York. Mi indicò la stazione di William Street, e lì andai, dove la sera presi il treno. Arrivai a New York il martedì mattina, avendo completato il viaggio in meno di ventiquattr’ore.

La mia vita da uomo libero ebbe inizio il 3 settembre 1838. La mattina del 4 di quel mese, dopo un viaggio angosciante e pericoloso, ma che andò bene, mi ritrovai nella grande città di New York da UOMO LIBERO… uno in più nella moltitudine che, come le disorientate onde del mare in burrasca, fa su e giù tra gli alti edifici di Broadway. Sebbene abbagliato dalle meraviglie che mi venivano incontro da ogni parte, non riuscivo più di tanto a distogliere i pensieri dalla mia singolare situazione. Per il momento, i sogni da ragazzo e le speranze da uomo adulto erano realizzati in pieno. Le catene che mi legavano al “vecchio padrone” erano spezzate. Nessun uomo aveva ora il diritto di chiamarmi suo schiavo o di imporre la sua autorità su di me. Mi trovavo in mezzo alle baruffe del mondo esterno, a cogliere le occasioni come il resto dei suoi affaccendati occupanti. Mi è stato spesso chiesto cosa provai quando per la prima volta mi trovai su suolo libero. Non c’è praticamente nulla nella mia vita su cui potrei rispondere in modo più esaustivo. Un nuovo mondo si era aperto davanti a me. Se “la vita è di più di respiro e di un giro veloce del sangue”4, vissi di più in quel singolo giorno che in un anno da schiavo. Fu un momento di gioioso entusiasmo che le parole possono a malapena descrivere. In una lettera scritta a un amico subito dopo essere arrivato a New York, dissi “Mi sono sentito come potrebbe sentirsi qualcuno che è appena fuggito da una tana di leoni affamati”. Pena e angoscia, come l’oscurità e la pioggia, possono essere rappresentate; ma felicità e gioia, come l’arcobaleno, sfuggono alla maestria dello scrittore o dell’artista. Per dieci o quindici anni ero andato, come dire, trascinando una pesante catena che nessuna mia forza poteva spezzare; non ero solo uno schiavo, ero uno schiavo a vita. Sarei potuto diventare un marito, un padre, un vecchio, ma a tutto ciò, dalla nascita alla morte, dalla culla alla tomba, mi ero sentito condannato. Tutti i tentativi che avevo fatto in precedenza per procurarmi la libertà non solo erano falliti, ma mi era sembrato che stringessero ancora di più le maglie delle mie catene, e rendessero la mia fuga più ardua. Confuso, intrappolato, e scoraggiato, mi ero talvolta posto la domanda: non potrebbe essere che dopo tutto la mia condizione sia opera di Dio, che sia stata disposta per un saggio fine, e, se così, non sarà la mia sottomissione un dovere? In effetti da tempo nella mia mente aveva luogo un conflitto, tra la chiara consapevolezza di ciò che è giusto e i plausibili espedienti della teologia e della superstizione. Questi mi volevano un miserabile schiavo... un prigioniero a vita, punito per qualche trasgressione nella quale non avevo né quota né parte; mentre il senso di giustizia mi spronava a darmi coraggiosamente da fare per assicurarmi la libertà. Questo conflitto era ora finito; le mie catene erano spezzate, e la vittoria mi portò un’ineffabile gioia.

Ma la mia gioia ebbe vita breve, perché non ero ancora fuori dalla portata e dal potere dei proprietari di schiavi. Ben presto scoprii che New York non era il rifugio libero e sicuro che avevo creduto, e un senso di isolamento e insicurezza tornò tristemente a opprimermi. Mi capitò di incontrare per strada, alcune ore dopo il mio arrivo, uno schiavo fuggitivo che una volta avevo conosciuto bene in schiavitù. Le informazioni da lui ricevute mi allarmarono. Il fuggitivo in questione era conosciuto a Baltimore come “Il Jake di Allender”, ma a New York portava il più rispettabile nome di “William Dixon”. Secondo la legge, Jake apparteneva al dottor Allender, e Tolly Allender, il figlio del dottore, una volta aveva fatto un tentativo per riprendersi MR. DIXON, ma aveva fallito per mancanza di prove a supporto della sua rivendicazione. Jake mi raccontò le circostanze di questo tentativo, e di quanto poco mancò che fosse rispedito in schiavitù e a subire torture. Mi disse che New York in quel periodo era piena di gente del Sud che tornava dalle stazioni termali del Nord, che dei neri di New York non c’era da fidarsi, che c’erano, assoldati, uomini di colore come me che mi avrebbero tradito per pochi dollari, che c’erano uomini assoldati sempre in cerca di fuggitivi, che non avrei dovuto rivelare a nessuno il mio segreto, o azzardarmi ad andare al molo o a una pensione per neri, perché tutti questi posti venivano accuratamente sorvegliati. Aggiunse che lui stesso non poteva aiutarmi, e, a dire il vero, mentre parlava con me sembrava temere che anch’io potessi essere una spia o un traditore. Con questa apprensione addosso, suppongo, mostrò segni di volersi sbarazzare di me, e con un pennello da imbianchino in mano, alla ricerca di lavoro, ben presto scomparve.

Questo quadro di New York, fornitomi dal povero “Jake”, smorzò il mio entusiasmo. La mia piccola riserva di denaro si sarebbe presto esaurita, e dal momento che non sarebbe stato sicuro andare al molo alla ricerca di lavoro, e non avevo conoscenze in nessun luogo, la prospettiva per me era tutt’altro che allegra. Pensai che avesse senso tenermi alla larga dai cantieri navali, perché, se ricercato, e certamente sentivo di esserlo, Mr. Auld, il mio “padrone”, mi avrebbe ovviamente cercato lì tra gli addetti al lavoro di calafataggio. Ogni porta sembrava essere chiusa. Ero in mezzo a un oceano di uomini come me, eppure un perfetto estraneo per ognuno di loro. Ero senza casa, senza conoscenze, senza soldi, senza credito, senza lavoro, e senza alcuna idea concreta di quale direzione prendere, o di dove cercare soccorso. In condizioni così estreme, uno ha qualcosa di più della sua nuova libertà a cui pensare. Mentre vagavo per le strade di New York, e avendo dimorato per almeno una notte tra i barili su una delle banchine, ero in effetti libero… dalla schiavitù, ma anche da cibo e riparo. Tenni per me il mio segreto il più a lungo possibile, ma alla fine fui costretto a cercare qualcuno che diventasse mio amico senza che però approfittasse della mia indigenza per tradirmi. Trovai tale persona in un marinaio di nome Stuart, un tipo generoso e di buon cuore, il quale, dalla sua umile casa in Centre Street, mi vide in piedi sul marciapiede di fronte, vicino alle prigioni Tombs. Come mi si avvicinò, azzardai un commento che subito catturò il suo interesse. Mi ospitò a casa sua per la notte, e la mattina dopo venne con me da Mr. David Ruggles, il segretario del Vigilance Committee di New York5, un collega di Isaac T. Hopper, di Lewis e Arthur Tappan, di Theodore S. Wright, Samuel Cornish, Thomas Downing, Philip A. Bell, e altri uomini perbene di quei tempi. Tutti costoro (eccetto Mr. Bell, che è ancora in vita, e che è direttore ed editore del giornale Elevator, a San Francisco) hanno finito il loro lavoro sulla terra. Una volta nelle mani di questi uomini coraggiosi e saggi, mi sentii relativamente al sicuro. A casa di Mr. Ruggles, all’angolo tra Lispenard Street e Church Street, rimasi nascosto per diversi giorni, durante i quali la mia promessa sposa venne da Baltimore dietro mia chiamata per condividere il fardello della vita insieme a me. Era una donna libera, e arrivò subito dopo aver sentito le buone notizie che dicevano che ero al sicuro. Fummo uniti in matrimonio dal reverendo J. W. C. Pennington, allora un noto e rispettato ministro presbiteriano. Non avevo denaro con cui pagare la parcella, ma il ministro sembrò accontentarsi dei nostri ringraziamenti.

Mr. Ruggles fu il primo agente della “Ferrovia sotterranea”6 che conobbi dopo il mio arrivo al Nord, e fu, a dire il vero, l’unico con cui ebbi a che fare fino a quando non diventai io stesso un membro dell’organizzazione. Venuto a sapere che di mestiere facevo il calafato, subito decise che il posto migliore per me sarebbe stato New Bedford, Massachusetts. Mi disse che lì venivano equipaggiate tante navi per spedizioni come baleniere, e che in quel posto avrei potuto trovare lavoro nel mio campo per guadagnarmi degnamente da vivere. Così, il giorno del matrimonio, portammo il nostro piccolo bagaglio a bordo del piroscafo John W. Richmond, che a quel tempo percorreva la rotta tra New York e Newport, Rhode Island. Quarantatré anni fa ai passeggeri di colore non era permesso viaggiare in cabina, né sostare verso poppa vicino alle ruote a pale di un’imbarcazione a vapore. Erano costretti, con qualunque tempo – caldo o freddo, secco o umido –, a passare la notte sul ponte. Per quanto ingiusta fosse, questa regola non ci infastidì più di tanto; avevamo subìto decisamente di peggio prima di allora. Arrivammo a Newport la mattina successiva, e poco dopo una diligenza di vecchio tipo, con la scritta “New Bedford” a grandi caratteri gialli su entrambi i lati, arrivò giù al molo. Non avevo abbastanza soldi per il biglietto, e rimasi lì indeciso sul da farsi. Fortunatamente per noi c’erano due signori, due quaccheri, che stavano per salire sulla diligenza – l’Amico William C. Taber e l’Amico Joseph Ricketson – che immediatamente intuirono la nostra situazione; e, in modo singolarmente tranquillo, Mr. Taber si rivolse a me dicendo “Voi due, salite”. Mai risposi a un ordine con più solerzia, ed eccoci dunque diretti verso la nostra nuova casa. Quando arrivammo a Stone Bridge i passeggeri scesero per fare colazione e pagarono al conducente il prezzo della corsa. Noi non facemmo colazione, e, quando il conducente ci chiese di pagare, gli risposi che mi sarei messo a posto con lui non appena arrivati a New Bedford. Mi aspettavo delle obiezioni da parte sua, ma non ne fece. Quando, tuttavia, arrivammo a New Bedford, prese i nostri bagagli, inclusi tre libri di musica – due raccolte di Dyer, e una di Shaw – e li trattenne finché non fossi stato in grado di riscattarli pagando quanto dovuto per le nostre corse. Ciò fu presto fatto, perché Mr. Nathan Johnson non solo mi accolse con gentilezza e ospitalità, ma, una volta informato circa i nostri bagagli, subito mi prestò due dollari con i quali pareggiare i conti con il conducente della diligenza. Mr. e Mrs. Johnson raggiunsero una considerevole età, e ora riposano dalle loro fatiche. Ho un grande debito di gratitudine nei loro confronti. Non solo mi accolsero quando straniero e mi diedero da mangiare quando affamato7, ma mi insegnarono anche come guadagnarmi onestamente da vivere. E così, dopo due settimane dalla mia fuga dal Maryland, mi trovavo in salvo a New Bedford, un cittadino del grande vecchio Stato del Massachusetts.

Una volta introdotto alla mia nuova vita e rassicurato da Mr. Johnson sul fatto che in quella città non dovevo temere di essere ricatturato, si presentò la questione relativamente di poco conto del nome con il quale sarei stato conosciuto da allora in poi nei miei rapporti da uomo libero. Il nome datomi dalla mia cara madre era non meno lungo e pretenzioso di Frederick Augustus Washington Bailey. Quando vivevo nel Maryland, tuttavia, avevo eliminato Augustus Washington e mi ero tenuto solo Frederick Bailey. Tra Baltimore e New Bedford, per nascondermi dai cacciatori di schiavi mi ero separato da Bailey e mi ero dato il nome di Johnson, ma a New Bedford scoprii che la famiglia Johnson era già così numerosa che era difficile distinguerli tutti, e dunque un cambio di nome sembrò opportuno. Nathan Johnson, colui che mi ospitava, enfatizzò molto questa necessità, e desiderò che gli permettessi di scegliere un nome per me. Acconsentii, e lui mi chiamò con il mio nome attuale – quello con cui da quarantatré anni sono conosciuto – Frederick Douglass. Mr. Johnson stava giusto leggendo La donna del lago, e il suo grande personaggio gli piacque così tanto che desiderò che io portassi il suo nome. Da quando io stesso ho letto quell’affascinante poema, ho spesso pensato, considerata la nobile ospitalità e il vigoroso carattere di Nathan Johnson, che – seppur nero anch’egli – lui, molto più di me, illustrasse le virtù del Douglas di Scozia. Sono sicuro che, se un cacciatore di schiavi fosse entrato in casa sua con l’idea di catturarmi, Johnson si sarebbe mostrato come colui dalla “mano risoluta”8.

Il lettore potrebbe sorprendersi di come avevo in qualche modo immaginato le condizioni sociali e materiali della gente che viveva al Nord. Non avevo un’idea adeguata del benessere, della raffinatezza, dell’iniziativa e dell’alto grado di civiltà di questa parte del paese. Il mio Columbian Orator9, praticamente il mio unico libro, non aveva fatto nulla per illuminarmi sulla società del Nord. Mi era stato insegnato che la schiavitù stava alla base di tutto il benessere economico. Con questa idea fondante, ero arrivato naturalmente alla conclusione che la povertà doveva essere la condizione generale degli abitanti degli stati liberi. Dal paese da cui provenivo, un bianco che non possedeva schiavi era solitamente un uomo ignorante e afflitto dalla povertà, e gli uomini della sua categoria venivano spregiativamente chiamati “poveri rifiuti bianchi”. Dunque supponevo che, dal momento che i non-possessori-di-schiavi al Sud erano ignoranti, poveri, e di basso ceto sociale, i non-possessori-di-schiavi al Nord dovessero essere in condizioni simili. Non sarei potuto approdare a nessuna parte degli Stati Uniti con un contrasto più straordinario e gratificante di New Bedford, non solo rispetto alla vita al Sud in generale, ma anche nella constatazione delle condizioni della gente di colore che viveva lì. Fui meravigliato quando Mr. Johnson mi disse che non c’era niente nelle leggi o nella costituzione del Massachusetts che impedisse a un uomo di colore di diventare governatore dello Stato, se il popolo avesse ritenuto di eleggerlo. Lì, inoltre, i figli dei neri andavano a scuola con i figli dei bianchi, e a quanto pare senza obiezioni da chicchessia. Per farmi capire che non correvo il rischio di essere ricatturato e di tornare in schiavitù, Mr. Johnson mi assicurò che nessun proprietario di schiavi poteva portare uno schiavo fuori da New Bedford; che c’erano uomini che avrebbero dato la vita per salvarmi da tale destino.

Il quinto giorno da che ero arrivato mi misi gli abiti da comune manovale e andai al molo a cercare lavoro. Scendendo per Union Street vidi una larga pila di carbone di fronte alla casa del reverendo Ephraim Peabody, il ministro unitariano. Andai alla porta di servizio e chiesi di avere il privilegio di portar dentro e sistemare questo carbone. “Quanto vuoi?” disse la padrona di casa. “Lascio decidere a lei, signora”. “Va bene, metti via il carbone” disse. Non ci misi molto a finire il lavoro, dopodiché la cara signora mi mise in mano DUE MEZZI DOLLARI D’ARGENTO. Per comprendere l’emozione che mi riempì il cuore, come afferrai quel denaro, rendendomi conto che non c’era padrone che potesse portarmelo via, CHE ERA MIO... CHE LE MIE MANI MI APPARTENEVANO, e avrebbero potuto guadagnarne altre di quelle preziose monete... uno dovrebbe essere stato egli stesso in qualche modo schiavo. Il mio successivo lavoro consistette nello stivare su uno sloop al molo di “Uncle Gid” Howland un carico di olio di balena destinato a New York. Non ero soltanto un uomo libero, ero un lavoratore libero, e nessun “padrone” era lì alla fine della settimana a sequestrarmi ciò che avevo duramente guadagnato.

La stagione stava volgendo al termine e c’era lavoro in abbondanza. Le navi venivano equipaggiate per la caccia alle balene, e nel loro rifornimento veniva utilizzata molta legna. Tagliare questa legna era considerato un buon lavoro. Con l’aiuto del vecchio Amico Johnson (benedetta la sua memoria) presi sega e cavalletto e mi avviai. Quando entrai in un emporio per comprare una corda con la quale assicurare bene la sega alla struttura, chiesi un fip di spago. L’uomo dietro il banco mi rivolse uno sguardo tagliente, e in modo altrettanto tagliente mi disse “Non sei di queste parti”. Mi allarmai, e pensai di essermi tradito. Un fip in Maryland era pari a sei centesimi e un quarto, quello che in Massachusetts chiamavano fourpence. Ma da questa cantonata non risultarono danni, e fiducioso e allegro me ne andai a lavorare con sega e cavalletto. Era un mestiere nuovo per me, ma mai feci di meglio, o di più, nello stesso lasso di tempo alla piantagione, per Covey, lo spacca-neri, di quanto feci per me stesso in questi primi anni di libertà.

Nonostante il giusto e umano sentire di New Bedford quarantatré anni fa, il luogo non era del tutto libero da pregiudizi razziali. La positiva influenza dei Roach, dei Rodman, degli Arnold, dei Grinnell, e dei Robeson non pervadeva tutte le categorie dei suoi abitanti. La prova dell’effettivo grado di progresso della comunità si presentò quando mi candidai per un posto nel mio mestiere e ricevetti un enfatico e deciso rifiuto. Si dà il caso che Mr. Rodney French, un cittadino benestante e intraprendente, noto anche per essere un oppositore della schiavitù, stesse equipaggiando un’imbarcazione per una spedizione come baleniera, sulla quale andava fatto un gran lavoro di calafataggio e rivestimento in rame. Avevo una buona conoscenza di entrambi i mestieri, e così mi candidai presso Mr. French per un posto. Lui, da uomo generoso qual era, disse che mi avrebbe assunto, e che potevo andare subito all’imbarcazione. Gli obbedii, ma quando giunsi alla banchina galleggiante, dove altri calafati erano al lavoro, mi fu detto che ogni bianco avrebbe abbandonato la nave così com’era, incompleta, se avessi accennato a fare il mio mestiere su di essa. Questo trattamento incivile, inumano ed egoista non si rivelò allora ai miei occhi così sconvolgente e scandaloso come mi appare oggi. La schiavitù mi aveva così assuefatto alle avversità che questi inconvenienti mi sembravano cose di poco conto. Se avessi potuto fare il mio mestiere avrei potuto guadagnare due dollari al giorno, ma come comune manovale ne ricevevo soltanto uno. Faceva una gran differenza per me, ma se non potevo avere due dollari, fui contento di riceverne uno; e così andai a lavorare per Mr. French come comune manovale. La consapevolezza di essere libero – non più schiavo – mi mantenne di buon umore in occasione di questo divieto come di altri simili che mi sarebbe capitato di ricevere a New Bedford e altrove sul libero suolo del Massachusetts. Per esempio, nonostante i bambini di colore andassero a scuola, e fossero trattati con gentilezza dagli insegnanti, il New Bedford Lyceum si rifiutò, fino a diversi anni dopo da che risiedevo in quella città, di permettere a qualsiasi persona di colore di seguire le lezioni che si tenevano nella sua aula magna. Fu solo dopo che uomini come Charles Sumner, Theodore Parker, Ralph Waldo Emerson, e Horace Mann si rifiutarono di tenere le loro lezioni nei corsi del Lyceum mentre vigevano tali restrizioni, che queste furono abolite.

Rassegnato al fatto di non potermi guadagnare da vivere a New Bedford facendo il mio mestiere, mi preparai a fare qualsiasi tipo di lavoro mi capitasse sotto mano. Tagliai la legna, spalai il carbone, scavai sotterranei, sgombrai cortili dalla spazzatura, lavorai al molo, caricai e scaricai imbarcazioni, e spazzai le loro cabine.

Successivamente trovai un posto fisso alla fonderia di ottone di proprietà di Mr. Richmond. Il mio compito qui era di far andare i mantici, muovere la gru, e svuotare i recipienti in cui venivano fatte le colate; e a volte era un lavoro caldo e pesante. Gli articoli prodotti qui erano soprattutto destinati all’industria navale, e durante i periodi di maggiore attività la fonderia era in funzione giorno e notte. Ho spesso lavorato ogni giorno lavorativo della settimana e in più due notti. Il mio capo, Mr. Cobb, era un buon uomo, e più di una volta mi difese dagli insulti che uno o più lavoratori avevano la tendenza a buttarmi addosso. In queste circostanze avevo poco tempo per migliorarmi a livello mentale. Il duro lavoro, giorno e notte, in una fornace così calda da far sì che il metallo continuasse a scorrere come acqua, disponeva maggiormente all’azione che al pensiero; eppure spesso inchiodavo un giornale al palo vicino ai mantici e lo leggevo mentre azionavo la pesante trave per mezzo della quale i mantici si riempivano e svuotavano d’aria. Era la ricerca di conoscenza in mezzo alle difficoltà, e guardo ora a essa, dopo così tanti anni, con una certa compiacenza, e meravigliandomi di poter essere stato così determinato e costante in un altro proposito che non fosse il mio pane quotidiano. Certamente non vidi nulla nel comportamento di coloro che mi stavano intorno che potesse ispirarmi un tale interesse: erano tutti dediti esclusivamente a ciò che le loro mani trovavano da fare. Sono contento di poter dire che, nel periodo in cui fui occupato alla fonderia, nessuno si lamentò perché non facevo il mio lavoro, o perché non lo facevo bene. I mantici che azionai usando la forza furono mossi, dopo che me ne andai, da un motore a vapore.


Note

1. Citazione biblica da Salmi 107:23 (La Bibbia, Società Biblica di Ginevra, 2009, p. 400).

2. “Free trade and sailor’s rights” è la scritta sulla bandiera issata a bordo della nave Essex dal capitano David Porter durante la guerra del 1812, nella quale la marina inglese operava il reclutamento forzato di marinai americani. A sottolineamento degli ideali rivoluzionari del Diciottesimo secolo, la frase ebbe ampia risonanza e rimase in voga anche ben dopo la fine della guerra del 1812.

3. Il Revenue Cutter Service, istituito il 4 agosto 1790 su raccomandazione del Secretary of Treasure Alexander Hamilton, e con ruoli diversi a seconda del periodo storico, è il precursore del servizio di guardia costiera.

4. Life’s more than breath and the quick round of blood. Citazione da Festus, del poeta inglese Philip James Bailey (1816-1902).

5. Gruppo di cittadini attivisti, in questo caso impegnati nella causa abolizionista.

6. L’Underground Railroad era la fitta rete di aiuto e supporto agli schiavi che, in gruppo o singolarmente, fuggivano dal Sud alla ricerca della libertà. L’organizzazione si avvaleva del contributo di neri e bianchi che si battevano per la causa abolizionista o che semplicemente mettevano in pratica i loro ideali umanitari. Uno dei gruppi più attivi e numerosi dell’Underground Railroad era quello dei quaccheri.

7. Citazione liberamente tratta da Matteo 25:37 e 25:38.

8. Da La donna del lago, di Walter Scott, Canto 5°, XXIV.

9. Una sorta di antologia con scopi didattici pubblicata per la prima volta nel 1797 e che Douglass menziona anche nella sua autobiografia Narrative of the Life of Frederick Douglass.